Alzheimer. La vitamina E può rallentare la progressione della malattia. Scoperta l’area neurale dove nasce e si diffonde il morbo

7 Gennaio 2014 0 Di Felice Pensabene

Da Giovanni D’Agata riceviamo e pubblichiamo.

È stato recentemente scoperto a seguito di uno studio effettuato su anziani veterani degli Stati Uniti, che alte dosi di vitamina E possano ritardare il declino da circa sei mesi ad un periodo di due anni, nelle abilità della vita quotidiana, come la preparazione dei pasti, vestirsi, effettuare una conversazione.

I ricercatori del Sistema Sanitario di Minneapolis, sono convinti nell’affermare che la vitamina E potrebbe rallentare la progressione della malattia di Alzheimer lieve-moderata – essendo la prima volta che un trattamento ha dimostrato di alterare il corso della demenza in quella fase.

In uno studio sponsorizzato dal Dipartimento degli Affari dei Veterani degli Stati Uniti pubblicato dal Journal of American Medical Association, condotto su più di 600 veterani anziani, è arrivato a concludere che il beneficio era equivalente a mantenere una abilità principale che altrimenti sarebbe  andata perduta, come la possibilità di fare il bagno senza aiuto. Per alcune persone, potrebbe significare vivere in modo indipendente piuttosto che necessitare il ricovero in una casa di cura.

La vitamina E non ha mantenuto le abilità del pensiero, però, e non andrebbe bene per i pazienti che hanno assunto altri farmaci per la cura dell’Alzheimer. Ma quelli che assumevano la vitamina E hanno richiesto meno aiuti

“Non è un miracolo o, ovviamente, una cura,” ha detto il capo dello studio il dottor Maurice Dysken ed ha continuato sottolineando che “Il meglio che possiamo fare a questo punto è rallentare la velocità di progressione”.

Tuttavia i medici hanno esplicitamente avvertito che nessuno dovrebbe correre a comprare la vitamina E. Non è riuscito a impedire che le persone sane sviluppassero demenza o aiutare le persone con insufficienza lieve (“pre-Alzheimer”), secondo altri studi, mentre una ricerca ha suggerito che potrebbe anche essere dannosa.

Eppure, molti esperti hanno applaudito ai nuovi risultati dopo tanti recenti flop di farmaci che si ritenevano promettenti.

 “Questo è veramente un passo avanti e ci porta verso ciò che abbiamo lavorato per quasi tre decenni: il primo vero intervento che modifica la progressione dell’Alzheimer”, ha detto il dottor Sam Gandy della Mount Sinai School of Medicine di New York che si è dichiarato molto entusiasta dei risultati dei test in questione.

I ricercatori ancora non hanno piena contezza di come agisce concretamente la vitamina E, ma è noto che la stessa sia un antiossidante naturale, come quelli trovati nel vino rosso, uva e alcuni tè. Gli antiossidanti aiutano a proteggere le cellule dai danni che possono contribuire ad altre malattie, affermano autorevoli fonti mediche.

Molti alimenti contengono vitamina E, come noci, semi, cereali, verdure a foglia verde e oli vegetali. Ci sono molte forme, e lo studio ha testato una versione sintetica di alfa-tocoferolo in grado di avere valenza farmaceutica.

Questa recente ricerca, giunge dopo che nei giorni scorsi è stato pubblicato sulla rivista Nature Neuroscience uno studio che avrebbe dimostrato la precisa individuazione dell’area neurale dove nasce e si diffonde il morbo di Alzheimer.

I ricercatori del Columbia University Medical Center hanno fatto rilevare che la scoperta potrebbe portare a un metodo di diagnosi precoce e magari un giorno ad un intervento terapeutico anticipato in grado di bloccare la malattia.

Finora era noto che il morbo di Alzheimer avesse origine in una zona della corteccia cerebrale chiamata corteccia entorinale. Ma adesso gli scienziati americani hanno scoperto esattamente dove tutto ha inizio e come si diffonde la malattia al resto del cervello.

Utilizzando una versione ad alta risoluzione della risonanza magnetica gli esperti hanno visto che la malattia inizia con l’accumulo di proteine tossiche nella “corteccia entorinale laterale”, una zona particolarmente sensibile a tale accumulo e che per di più è la ‘porta di ingresso’ verso l’ippocampo, il centro della memoria. La risonanza ad alta risoluzione ha ripreso i primi danni che si vedono perché appena ha inizio la demenza il flusso di sangue che irrora quella particolare zona comincia a ridursi, segno di alterato metabolismo cerebrale. Gli studiosi hanno arruolato 96 anziani e li hanno monitorati per una media di tre anni e mezzo. I partecipanti erano tutti sani all’inizio dello studio, ma poi nel corso del tempo alcuni avevano cominciato a manifestare i primi segni di lieve declino cognitivo che è l’anticamera della demenza.

Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, associazione che si occupa anche della tutela degli ammalati di tali malattie neurodegenerative, ricorda che circa 35 milioni di persone in tutto il mondo sono affette da demenza senile, ed il morbo di Alzheimer è il tipo più comune.

L’inesistenza di una cura, poiché le medicine attuali possono solo temporaneamente alleviare i sintomi, comporta il fatto che non solo chi è colpito dalla malattia ne subisce le conseguenze che lo portano ad un decadimento progressivo sino alla morte, ma anche i propri familiari che devono assisterli.

È difficile, quindi stimare, per la loro enormità, i costi sociali che la malattia porta ai sistemi di welfare, ma è ovvio che la scoperta di una cura efficace potrebbe da una parte portare sollievo a milioni di persone nel mondo, ma anche ridurre notevolmente la spesa pubblica sanitaria a livello globale.