Stato e cultura? “E io ci credo ancora”

Stato e cultura? “E io ci credo ancora”

8 Ottobre 2017 0 Di Felice Pensabene

Ministri senza laurea, medici senza strumenti per operare, docenti senza voglia di insegnare – paradossalmente. Potremmo sfogliare innumerevoli pagine sulle mancanze dell’apparato statale italiano, preferiamo riassumere questo vergognoso sistema in tre parole: Italia senza cultura.

Entriamo nell’ufficio postale della nostra città, siamo il numero 248. Di 10 sportelli, uno è sospeso e altri due sono vacanti: stanno servendo il numero 223, due operatrici sono sulla soglia dell’ufficio e chiacchierano sorseggiando caffè. Ci voltiamo rassegnati, persino i posti a sedere sono finiti. È l’Italia senza cultura.

Ci rivolgiamo all’ufficio anagrafe, sono le 11.30. “Chiudiamo alle 12.00, il responsabile è uscito. Passa domani”. È l’Italia senza cultura.

Non possiamo che associare queste sgradevoli situazioni alle parole di Aristotele: “La cultura è ornamento della buona sorte e rifugio nella cattiva”. Se la “buona sorte” di cui parla il filosofo greco non esiste, le strutture italiane non possono ornarsi di un bene tanto grande, e se la cultura non viene resa possibile, il pessimo stato delle istituzioni è garantito.

All’intellettuale non resta che rifugiarsi, la cultura diventa un Eden talmente raro e fragile da dover celare per paura che venga distrutto dal demone del “ma sì, tanto a che serve”.

Ieri abbiamo scoperto un piccolo Eden in un altrettanto piccolo ufficio della Asl di Cassino, quello a cui solitamente ci si rivolge per il cambio del medico curante. Una stanza dalle dimensioni ridotte, un filo di luce dalla finestra che tanto basta a illuminare l’inaspettato: stralci di poesie appese alle pareti verde menta.

Sono solo fotocopie tenute da pezzi di scotch, sono la cultura che grida in tutta la sua maestà: primo fra tutti, l’Inno d’Italia. Riportato nella sua interezza, testo originale. È la volontà di rendere dignità a uno Stato straccione, è la consapevolezza – rara – di appartenere a una patria. Non ci stupisce che ad appenderlo sia stato proprio l’impiegato dell’ufficio, uomo d’altri tempi. Accanto all’Inno compare un frammento della poesia di Berchet scritta in onore della Lega di Pontida del 1167, anno che segnò il primo antefatto dell’unità italiana, realizzata 7 secoli dopo, nel 1861.

“A scuola, quando facevo le elementari, ci facevano studiare questo. E io ci credo ancora”, sono le parole dell’impiegato. Dietro la porta dell’ufficio tuonano le forti parole della scrittrice e filosofa russa Ayn Rand: “Quando ti rendi conto che la corruzione paga e l’onestà diventa autosacrificio, allora puoi affermare che la tua società è condannata”.

Restiamo estasiati dinanzi l’immensità di queste parole, ci lasciano la sola possibilità di riflettere: ogni ufficio, pubblico o privato che sia, ogni aula, ogni sala ospedaliera dovrebbe conservare la forza di questi pensieri.

E nel mentre riecheggiano le parole dell’impiegato: “E io ci credo ancora”.

Giulia Guerra