La drammatica lotta (giudiziaria) di un uomo per non dimenticare i delitti dei “liberatori stupratori”

2 Ottobre 2011 0 Di redazione

Ascoltate bene quel che vi dico: oltre quei monti, oltre quei nemici che stanotte ucciderete, c’e una terra larga e piena di donne, di vino, di case. Se voi riuscirete a passare quella linea senza lasciare vivo un solo nemico, io, che sono il vostro generate, vi prometto che quell donne, quelle case, quel vino e tutto quello che troverete sara vostro, a vostro piacimento e volonta. Per cinquanta ore potrete fare tutto quello che volete, prendere distruggere e portare via ogni cosa. Per cinquanta ore avrete carta bianca!».
E il 25 maggio del 1944, le parole del generale francese Alfonse Juin, comandante delle truppe marocchine che combattono a fianco degli Alleati, danno il via a una delle pagine piu vergognose della seconda guerra mondiale: cinquanta ore di violenze, stupri, omicidi, saccheggi corapiuti dai soldati marocchini, i cosiddetti Goumiers, marchieranno in maniera indelebile la terra di Ciociaria, dove circa duemila donne subirono l’onta dello stupro. Una vicenda terribile, resa notissima al grande pubblico dal film La Ciociara, con Sofìa Loren, e tornata alla ribalta in questi giorni per iniziativa di un avvocato di Pastena, Giancarlo Corsetti, 48 anni. Sembrava una notizia come tante: un avvocato annunciava che il 27 marzo la Corte dei conti avrebbe discusso il ricorso della sua assistita, certa Caterina R.S., di 77 anni, volto ad ottenere il riconoscimento della pensione, come vittima civile della seconda guerra mondiale.
E giù i ricordi e le rievocazioni, le prese di posizione e le speranze riaccese: tutto normale, tutto scontato… anche il paragone con il film di De Sica e la certezza che proprio dalla storia di Caterina Alberto Moravia avesse preso spunto per raccontare, nel suo libro, il terribile dramma di una sconosciuta madre ciociara.
Ma Oggi, scavando nella vicenda, ha scoperto una verità ancora più drammatica e dolorosa, una storia nella storia che, in esclusiva, proponiamo ai nostri lettori con il rispetto e il pudore che merita un dolore senza limiti: la donna protagonista del ricorso alla Corte dei conti non si chiama Caterina, ma Rosa De Lellis ed è l’anziana madre di Giancarlo Corsetti.
Così, a cinquant’anni da quei tragici fatti, il racconto del figlio di una madre ciociara ci aiuterà a capire quanto dolore e quanta sofferenza siano stati sparsi nel nostro Paese, così come recentemente in Bosnia stesso dolore, stessi drammi sono stati vissuti dalle madri stuprate dalle truppe serbe.
«Sì, è mia madre», ammette con le lacrime agli occhi l’avvocato Corsetti dinanzi al cronista.
«Ma cosa cambia? Io da anni combatto questa battaglia non per il danaro, ma perché venga riconosciuto alla donna che mi ha messo al mondo nel 1947 ed alle altre che vivono in Ciociaria e che hanno subito la stessa violenza la dignità di vittime civili della guerra.
«Ho cercato dì tenere nascosta la sua identità perché lei è anziana e malata ed anche per evitare speculazioni o false interpretaziom. Avete scoperto la verità ormai, tanto vale raccontarvi tutta la mia storia, e quella dì mia madre
partendo dalla mattina del 26 maggio del 1944, quando 14 marocchini violentarono lei ed altre sei donne che pregavano nella chiesa della Madonna delle Macchie.
«Era poco prima di mezzogiorno, il 25 maggio le truppe tedesche erano state viste ripiegare disordinatamente verso nord e qualcosa di funesto si aggirava per l’aria, non una sensazione di liberazione, ma di morte. Mia madre e le sue amiche erano scese da Pastena il loro piccolo paese, arrivando sino alla chiesa per pregare; all’improvviso sbucarono 14 marocchini
vestiti solo con un lenzuolo bianco ed iniziarono lo scempio su quelle disgraziate, ripetuto, brutale, ossessivo, fino a sera.
«Mia madre venne anche ferita con un coltello e nei giorni successivi stette male, malissimo, la curarono con acqua e sale, perché non c’era altra medicina disponibile nei dintorni».
Giancarlo è disperato, il fazzoletto non riesce ad asciugare le lacrime che sgorgano dagli occhi celesti, singhiozza ed alzandosi in piedi indica con il dito la chiesa che si intravede in lontananza. «Lì, è lì che hanno brutalizzato mia madre», dice, e a fatica continua a rievocare la sua vicenda ed il dolore nel quale è cresciuto.
«Dopo la guerra, Pastena era un villaggio di martiri, ma la dignità e la forza di reazione prevalsero. Quasi tutte le donne vittime dei marocchini si sposarono, mia madre conobbe Francesco Corsetti, un costruttore edile di Sperlonga, e lo sposò. Era un uomo straordinario che, come tutti quelli maritati con le donne vittime dei marocchini, non sollevò mai il problema: il dolore divenne patrimonio comune degli abitanti di Pastena, la voglia di dimenticare anche.
«Nacqui io e, verso i cinque anni, in casa cominciai a sentire strani discorsi, anche perché mio zio, all’epoca, era autorevole esponente locale dell’Associazione vittime civili della guerra e si faceva un gran parlare di marocchini e violenza, di dolore fisico e morale, di risarcimenti e pensioni come vittime civili.
«Pian piano, ho iniziato a capire cosa era successo alla donna che, più d’ogni altra, amavo e che oggi mi fa sentire fiero di essere suo figlio. Un figlio che viene a conoscenza di quello che ho appreso io, nel corso degli anni deve recuperare il dono della ingenuità e della meraviglia dinanzi alle cose, restando sempre in adorazione della propria madre.«Io questo dolore me lo sono portato dentro e sono cresciuto e maturato in fretta, al punto di arrivare ad asciugare tante lacrime agli altri, senza trovare nessuno che asciugasse le mie. Ma non fa niente perché io credo, come dice il Vangelo, che coloro che hanno fame e sete di giustizia saranno prima o poi saziati.
«Quando i giudici si riuniranno per decidere sul mio ricorso, vorrei che pensassero che, quando la mente dell’uomo viene offuscata dalla violenza, proprio allora occorre lottare per la conquista dell’idea di giustizia. Il dolore che io mi porto dentro dall’infanzia è stato come un aratro che ha aperto la mia anima, ma dentro sono stati seminati, da mia madre e da mio padre, i semi della forza e della tolleranza.
«No, non ho mai nutrito sentimenti di vendetta, perché la violenza non costruisce nulla.
«Sì è vero, i marocchini mi fanno paura, tanta paura, quando ero bambino li sognavo spesso avvolti in lenzuola bianche, così come me li aveva descritti mia madre, ma non mi sento, né sono razzista. Qualche volta, quando sento particolare il bisogno di stare solo, vado alla chiesa della Madonna delle Macchie e mi raccolgo in preghiera: sì, proprio nel posto dove mia madre e le altre donne di Pastena subirono la violenza dei 14 marocchini. Ma non ce l’ho con il loro popolo.
«Quello che sto facendo dal 1966, quando si sono riaperti i termini per le domande di pensione, è il più grande atto d’amore che potessi rivolgere a mia madre e lei sa che la mia battaglia è per lei. Ecco, io voglio chiudere questa pagina nera della vita di mia madre e delle altre donne ciociare con una sentenza che le riconosca vittime della guerra.
«Vorrei che questa sentenza illuminasse la terribile vicenda dei Goumiers che, agli ordini del generale Juìn, hanno devastato la nostra terra e le vite delle nostre madri».
Giancarlo Corsetti ha riaperto una ferita che, in realtà, non s’è mai rimarginata del tutto; nei paesi della Ciociaria pochi hanno voglia di parlare, come conferma Domenico Merfì, 58 anni, sindaco di Castro dei Volsci, paese a pochi chilometri da Pastena, dove sorge il monumento alla Madre Ciociara, che sottolinea con vigore la necessità che la tragedia degli stupri rimanga avvolta nel silenzio e nel pudore.
«Anni fa ho dovuto fare una ordinanza per la rimozione di una lapide che ricordava, con nome e cognome, una donna vittima della bestialità delle truppe marocchine», dice, rammentando le proteste dei familiari di quella infelice donna e rimandando il cronista alla consultazione del lavoro di indagine condotto da uno storiografo di Castro, Filippo Palatta, che sulla vicenda ha scritto un libro.
«Qui in ogni famiglia c’è una vittima», afferma Palatta, 66 anni, che fa l’animatore nella Basilica Vaticana, «ma di quella dolorosa vicenda nessuno ama parlare e del resto questo è comprensibile. L’unica persona che non si sottrae è Jolanda Pacioni, una sopravvissuta che non ha mai avuto paura di raccontare la sua storia».
«Erano le 23 del 27 maggio», ricorda Jolanda, 69 anni che allora aveva 18 anni. «Le cinquanta ore stavano per scadere. Un gruppo di marocchini mi prese assieme ad altre ragazze, uno tentò di trascinarmi dietro una macchia per violentarmi.
«In quel momento capì che opporgli resistenza sarebbe stato peggio e dall’ora lo presi sottobraccio ed insieme ci incamminammo verso un fossato. Il marocchino era meravigliato e non credeva ai suoi occhi, perché il mio atteggiamento apparentemente disponibile lo sconcertava.
«Fu così che il Goumier, distraendosi, scivolò lungo un pendio del fossato, allora ne approfittai e gli diedi uno spintone che lo fece precipitare in fondo do alla cavità, ma lì iniziò la mia sofferenza, perche lo vidi imbracciare il moschetto e sparare un colpo che mi prese nel collo senza però ledere nessun organo vitale.
«Il dolore fu forte, ma attorno a me accadeva ben di peggio.
«Ho assistito a molte scene di violenza, la madre di mia cugina, per difendere la figlia, fu ammazzata come un cane Oggi si riparla della pensione, ma io ci credo poco, ci hanno dato quei quattro soldi nel 1953 e la storia è finita.
«Mi ricordo che, quando andai a Roma per ritirare le 50 mila lire che mi spettavano, la metà la consegnai a quello che mi aveva fatto la pratica qualche soldo lo spesi per comprare un portafoglio di pelle nuova e quando tornai a casa feci la distribuzione del denaro ai parenti ed i soldi finirono subito. A quel punto gettai via anche il portafoglio, perché non avevo più niente da metterci dentro».
Racconto gentilmente concesso dal blog http://vittimemarocchinate.blogspot.com