Ogni strada parte da Roma, ma solo la spada di San Vittore parla di Roma

Ogni strada parte da Roma, ma solo la spada di San Vittore parla di Roma

4 Giugno 2018 0 Di redazione

SAN VITTORE DEL LAZIO – Cosa unisce Roma al Lazio Meridionale oltre ad una antica strada in parte scomparsa ma che ancora oggi sopravvive nella toponomastica ufficiale che la definisce sempre, comunque ed ovunque via Latina?

Cosa racconta al meglio gli anni cruciali della romanizzazione dell’Italia se non un reperto in ferro conservato nel Museo archeologico Nazionale di cassino?

Ebbene questa è una piccola storia di ricerca e tutela. Questa è la fiaba già narrata della spada e del cavaliere che, stanco e sopravvissuto alla guerra, si ferma e ringrazia il divino con un gesto forte ed irreversibile: prende la sua arma, testimone di atrocità e sopravvivenza, e la porge al fabbro operante nel santuario di Ercole. Un ultimo sguardo e nella fucina la scruta e scorge l’acciaio che giunge al pinto di incandescenza. Solo quando la spada comincia ad emettere luce le pinze azzannano la lama, la punta cuspidata cade e il filo viene battuto. Da quel momento di fatica e sudore la spada appare mutila e sdentata. Forse per volontà dell’ultimo soldato ad averla indossata o per vanità di categoria del fabbro la mutila spada viene piegata per tutelare il racconto che conserva, reiterando la traccia del viaggio appena terminato. Una spada che non smette di vibrare. Una spada che tiene memoria e la trattiene nel silente deposito votivo. La spada, ovvero uno strumento, diventa voce, ricorda e perpetua una azione. Di strumenti parlanti o vocali la storia degli studi ne ricorda in quantità. Di solito troviamo le volontà dei congiunti o parole di scherno; talvolta le iatture ed i mal propositi delle tabellae defixionum. Ma nella spada di San Vittore, nome dato dal piccolo centro di Terra di Lavoro ove fu rinvenuta dai due amici e ricercatori nel 2003, vi è una città, la città dai tanti figli e forse troppi nipoti: “ROMA”. La spada di San Vittore porta a Roma e il nome di Roma pronuncia. Parla poi di un artigiano armaiolo che prese bottega a Roma.

Si chiamava Trebio, Trebio Pomponio. Cosa altro poteva essere se non un migrante italico che dal Sannio pentro si spostò a Roma. Portò con se la sua perizia, antenata vigorosa della stessa competenza degli armaioli contemporanei che percuotono l’acciaio nella sannita Agnone. Trebio ebbe il coraggio di lavorare l’acciaio, forgiarlo nelle forme delle spade galliche che in quegli anni avevano dimostrato di essere utili strumenti di offesa e di difesa. E Trebio, forse per richiesta del cliente o, meglio sarebbe, per emulazione e fierezza d’ocris, citò due volte il già venerato e ricordato Alessandro il Grande. Quell’Alessandro Magno che con la sua stella macedone segnò l’arte, la politica e la cultura di quegli anni.

Non possiamo conoscere oggi le dinamiche che portarono alla diffusione di tale moda, ma quanto rinvenuto ci prende ancor oggi per mano ricucendo le distanze tra quel mondo greco del mare di Taranto e il fronte appenninico dell’Adriatico sannita in una sequela di sensazioni ed impressioni incise nella spada di San Vittore. Era il quarto secolo avanti Cristo. Era il tempo di migranti e migrazioni.

L’Italia era terra di frontiera veniva raccontata come una terra di vacche, armenti e pastori armati. Terra di Galli al confine e vino amaro Tarantino pronto a muoversi verso il nord. Era il mondo latino che piano lasciava il sordo tufo del monte di Cabum, consacrato a Iuppiter Latiaris, per conquistare lo squillante calcare delle Mainarde, destinate a Mefitis ed a Ercole Bibax. Stava prendendo forma un territorio, si stava spostando il confine con la consapevolezza che di fronte non vi fosse un limite ma un orizzonte. Autodeterminazione, inclusione, sopruso e sopravvivenza avrebbero avuto solo con Augusto una veste ufficiale nelle distinte regiones o nei culti riconfermati e sopravvissuti per dottrina o per puri e semplici aspetti sentimentali e clanici. Trebio Pomponio forgiò e produsse un’arma.

Forse le sue stesse mani ageminarono la scritta col rame. Ne tracciò il sottile solco che rimane alla storia: “TREBIOS POMPONIOS C. F. ME FECET ROMAI”

A Roma mi fece. Da Roma partì quella azione di inclusione nell’Italia degli armenti. A ridosso dell’ocris di San Vittore del Lazio fu deposta, a Cassino si conserva e dal Museo Nazionale G. F. Carettoni si ostina a raccontare dell’italica e tenace gente che si lasciò sedurre dalla fierezza del mondo greco e dalla morsa necessaria di Roma.

di Dante Sacco – Progetto Summa Ocre