Cultura, pubblicato Il Foglio Volante

5 Agosto 2009 0 Di redazione

“Il Foglio volante” È stato  spedito agli abbonati “Il Foglio volante” di agosto 2009. Si tratta di un numero speciale dedicato quasi per intero al Premio Letterario “Una Fiaba per te” di San Pietro Infine (CE). Chi desideri ricevere copia saggio può chiederla a uno degli indirizzi: edizionieva@libero.it, edizionieva@edizionieva.com

Riportiamo qui, di seguito, la fiaba “Dalla Terra Del Poi”, vincitrice del Premio e un breve testo di Amerigo Iannacone, dalla rubrica “Appunti e spunti”.

Dalla Terra Del Poi

Era un luogo-non-luogo: non era un posto davvero: chiamarlo “terra” non sarebbe stato giusto – ma cosí, tanto per dargli un nome… quella era la terra del Poi. Del Dopo. Del Non Avvenuto. Dell’Accadrà Ma Non Subito. Quello era – quello è – il luogo in cui stanno tutte le cose, tutte le persone che dovranno venire alla luce. Poi. Dopo.

E in quel luogo-non luogo vanno piano piano formandosi: ci sono i pensieri, i progetti, i sogni di cui nessuno – nemmeno coloro che li penseranno, progetteranno, sogneranno – ha ancora coscienza. Ma loro sí – i pensieri, i progetti, i sogni – sanno di essere destinati ad esistere: e si interrogano su come (poi, dopo) potranno diventare.

Cosí nel luogo-non luogo si vedono esseri piccoli, e forme strane – piccole anch’esse: perché pensieri e progetti non hanno forma. La assumeranno poi. Dopo.

Quando lasciano la terra del Poi, non la ricordano piú – né ricordano come è stato complicato formarsi per diventare ciò che molti potranno vedere, o di cui potranno avere sensazione. Può essere lungo il tempo d’attesa: e le creature che un giorno saranno impegnano quel tempo sforzandosi di essere piú belle e migliori – in modo che quando verranno alla luce nessuno debba dire “Che assurdo pensiero!” o “Che inutile progetto!” e magari “Un sogno davvero stupido!” E tra le tante altre creature si andava formando una piccola Legge. Naturalmente sapeva che il mondo è pieno di Leggi: alcune sono vecchissime, altre solo vecchie, altre nuove. E sapeva anche che a tutte le Leggi si deve portare rispetto. La cosa la lusingava non poco:

— Quando esisterò, la gente mi renderà onore e farà quello che io prescrivo.

Lo ripeteva tra s̩, e una volta lo disse anche a un suo piccolo amico Рanche lui ancora abbastanza informe (ce ne sarebbe voluto, di tempo, perch̩ quel cosino diventasse un Grande Pensiero!). Ma per adesso era solamente un piccolo coso- che del pensiero non aveva nemmeno lontana apparenza.

— Sicura? — domandò Piccolo Coso.

— Tutti sanno che la gente deve obbedire alle Leggi. E io sarò una Legge.

— Tu sarai anche una Legge. Ma penso (non per niente sarò un Pensiero!) che voi leggi non siate tutte… lo stesso. Non era in discorso chiaro.

— Tutti sanno che la gente… — ricominciò a dire Piccola Legge.

Piccolo Coso si scrollò un po’ (non poteva scrollare la testa, perché ancora non si era formata):

— Ci sono tante leggi, diverse, — spiegò — e non tutte piacciono alla gente.

— Ma io non devo piacere. Mi devono solo obbedire. Mi sembra chiaro.

— Ma non tutti obbediscono alle leggi — sentenziò Piccolo Coso — e ne sono sicuro perché me l’ha detto un Grande Progetto Politico che stava per uscire alla luce. Quindi era uno che sapeva il fatto suo.

—Se non mi obbediranno, saranno persone… persone…

Non era facile per una Piccola Legge ancora in formazione esprimere il proprio pensiero e cosí lasciarono cadere il discorso.

Ma Piccola Legge continuò a pensarci: e le tornava alla mente la frase “Voi leggi non siete tutte… lo stesso” Cosa voleva dire? Che c’erano leggi cui obbedire? Altre da ignorare? Lei non voleva essere ignorata.

Mentre il tempo scorreva, Piccola Legge si sforzava di essere sempre migliore: stava molto dritta, ad esempio, perché non voleva che un giorno qualcuno potesse affermare “Ecco una legge nata storta!” Ma oltre al tenere la schiena dritta, cos’altro avrebbe potuto fare per migliorarsi? Bisognava capire come potevano essere le leggi – bisognava sapere.

Certo i Piccoli Pensieri, i Piccoli Progetti, i Piccoli Sogni ne sapevano quanto lei: e allora meglio rivolgersi a quelli che apparivano già piú grandi, piú definiti nei loro contorni – magari a quelli che erano cosí ben formati da essere pronti a schizzare fuori – per entrare nel Mondo. Erano però quelli che avevano molta fretta, e la liquidavano con poche parole:

— Come possono essere le leggi? Mah, lunghe, o corte… credo.

— Leggi? Belle, brutte… forse.

— Leggi? Ma io non me ne intendo: io sono un Progetto Per Costruire Un Nuovissimo Ospedale – e non ne so nulla, di leggi!

E il tempo scorreva: Piccola Legge stava crescendo Рogni giorno un pochino Рe insieme a lei Piccolo Coso: imparavano qualcosina ogni giorno (altrimenti, non si cresce pi̼) e avrebbero voluto impararne di pi̼ Рaffinch̩ venisse presto il momento di uscire alla luce, di prendere il proprio posto nel mondo.

— Io voglio essere una Legge importante.

— Anch’io vorrei essere un pensiero importante. Ma come si fa a dire? Magari siamo destinati a entrare (parlo per me, si capisce) dentro una piccola testa, e allora dovrei accontentarmi di essere un pensiero cosí-cosí.

A Piccola Legge prendeva lo smarrimento:

— Credi potrebbe capitare anche a me? Di entrare in un piccolo Codice, voglio dire.

— Certamente no. I codici di leggi sono tutti molto grossi. Perché i pensieri dei legislatori sono tutti grossi. Voglio dire, credo abbiano una testa molto grande.

Crescere, nel mondo del Poi, del Dopo, è veramente difficile: nessuno sa esattamente come stanno le cose, nessuno le insegna. Bisogna tentare da soli, e sforzarsi.

— Senti, Piccolo Coso, io ho deciso che sarò una legge bella. Cosí le persone che mi obbediranno saranno contente. Magari allegre.

— Vorrei essere anch’io un bel pensiero. Ma se poi entro nella testa di una persona non tanto perbene e ci trovo solo brutti pensieri?

— E tu non potresti essere bello, tu solo?

— Credo… che si finisca per copiare dagli altri.

— Potrebbero essere i pensieri brutti a copiare da te!

— Credi? Ma se loro sono tanti e io sono solo? E tornando al tuo progetto di essere una legge bella, non mi pare che la gente si rallegri a obbedire. Lo fa perché deve. Ma leggi belle… Nessuna legge, io credo, obbliga a mangiare cioccolata dalla mattina alla sera. Le leggi si occupano di lavoro, di dovere… Non credo i doveri siano piacevoli.

Parlare con Piccolo Coso poteva essere deprimente, a volte: la sua saggezza era pesante:

— Parli come un vecchio Pensiero! — commentava sconsolata Piccola Legge. E cosí Piccola Legge continuava a sforzarsi di crescere nel modo giusto:

— Piccolo Coso, forse hai ragione e non esistono leggi belle. Allora voglio essere una legge forte. Cosí tutti dovranno obbedirmi perché avrò dietro le spalle le Punizioni per chi non lo fa. -E chi obbedisce sarà contento, secondo te? Mi sembra di aver sentito dire che quando vanno in giro le Punizioni, nessuno è…

— Stai zitto, per carità. Parliamo io e te senza sapere di cosa. Perché non chiediamo a una Piccola Punizione come si svolgono le cose sulla Terra? Certo loro lo sanno: è il loro mestiere. Andarono nella zona riservata alle Punizioni: ce n’erano di tutti i tipi, da quelle mini per i piccoli guai che possono fare i bambini a quelle maxi per le cose terribili che riescono a combinare gli adulti. E tutte si preparavano con grande impegno al loro compito – che sapevano importante. Scelsero una punizione dall’aria gentile:

— Io? Sarò una Punizione per infrazioni alle Leggi sul traffico.

Piccola Legge spiegò:

— Volevo sapere come va la cosa. Io diventerò una Legge, ma non so ancora quale…

— Imparerai…crescendo — assicurò la Punizione che era già piú grandicella. — Comunque funziona cosí: prima c’è sempre il Pensiero…

— Io? — chiese Piccolo Coso.

— Certo. Dopo il Pensiero viene la legge…

— Cioè io — disse Piccola.

— Appunto. Per essere sicuri che la gente obbedisca dietro vengo io, la Punizione, e dietro…

— Perché, dietro c’è qualcun altro? — domandarono in coro Piccolo e Piccola.

— Ma certo. Dietro di me viene la Paura. È per la Paura che la gente obbedisce. Piú grande è la Paura, piú grande è l’obbedienza.

Era stata una spiegazione illuminante.

— Non credo mi piaccia tanto fare paura — mormorò Piccola Legge andandosene. — E cosí sono piú confusa: non posso essere una legge bella perché tu dici che le leggi non sono belle. E non mi va di essere una legge forte perché mi porterei dietro la Paura…

— A nessuno piace avere paura — commentò Piccolo Coso.

— E allora? Come devo essere? Legge piccola no, Legge storta… non ne parliamo, Legge inutile… ma ti pare? Che ci farei nel mondo? Ci sono proprio dei momenti terribili, in cui uno non sa cosa fare della sua vita!

— E non sa nemmeno come fare per crescere nel modo migliore! — Anche Piccolo Coso era sconsolato.

E il tempo scorreva. Piccolo Coso non era piú tanto piccolo e aveva ormai la forma di un Pensiero (poteva anche grattarsi la testa, se voleva, perché ora ne possedeva una) e anche Piccola Legge ormai teneva a farsi chiamare Leggina e sapeva che il diminutivo tra poco sarebbe sparito. Ma non erano spariti i dubbi, le incertezze:

— Come sarò? Cosa farò nel mondo? So come non devo essere, so come non voglio diventare: ma come voglio essere, ma come voglio diventare…. Non lo so assolutamente!

E siccome il momento di lasciare la Terra del Poi era sempre piú prossimo, Leggina prese una decisione:

— Chiederò alla piú vecchia che abita qui. Lei abita qui da sempre e non è mai voluta scendere sulla Terra perché dice che non c’è posto. Andrò dalla vecchia Saggezza.

In verità la Saggezza, a suo tempo, era discesa sulla Terra: era unica, lei, perché di Saggezza non ce n’è che una sola. Ma aveva scoperto abbastanza presto che al mondo c’è posto per tanti, ma per lei non ce n’era nessuno. Nessuno dà spazio alla Saggezza. L’avevano criticata, definita di volta in volta noiosa, antiquata, deprimente, grigia, barbosa – anche se lei era arrivata da poco. L’avevano ignorata. Avessero potuto, l’avrebbero chiusa da qualche parte. Ma ignorarla era proprio come rinchiuderla. Allora Saggezza si era detta che per stare al mondo e fare un bel nulla, tanto valeva andarsene via, e tornare nella Terra del Poi. In fondo, poteva darsi si formasse un tempo favorevole. Poi. Dopo. Un poi e un dopo molto molto lontani.

Cosí Leggina andò dalla vecchia Saggezza: non dovette fare anticamera perché la Saggezza non ha mai ospiti (anche nel mondo di là la considerano alquanto noiosa). E le espose tutti i suoi dubbi.

Saggezza ascoltò con pazienza, con piacere addirittura: non parlava mai con nessuno! E fu contenta che Leggina avesse ritenuto opportuno rivolgersi proprio a lei per sapere come diventare. Presto. Tra poco.

— Io non voglio essere una legge bella, né forte, né storta, né inutile… e non mi restano altre possibilità. Cosa diventerò? La Legge del niente? Io voglio essere utile, invece.

La Saggezza sorrise: sapeva vedere molto lontano e anche i problemi difficili per lei si potevano risolvere:

— Ma è tanto facile invece. Tu sarai…

Leggina pendeva dalle sue labbra.

— …tu sarai una legge GIUSTA! — e le indicò la strada che portava nel mondo.

Fryda Rota

Fiaba prima classificata al Premio “Una Fiaba per te”.

I pasticcieri si perdono le “i”

Ho provato a controllare su un motore di ricerca (sì, lo confesso, anch’io soffro della sindrome di google): il termine “pasticcere”, senza la “i”, batte “pasticciere”, con la “i”, per 173.000 a 72.200.

Ebbene, nella parola “pasticcio”, la seconda “i” è solo un artificio grafico del nostro alfabeto per non farci leggere “pasticco”, in quanto al grafema “c” in italiano corrispondono due fonemi, cioè due suoni diversi, uno palatale, come in “cena” e uno gutturale, come in “cane”. Lo stesso vale per “pasticciare”, dove, se non ci fosse la “i” leggeremmo “pasticcare”, ma in “pasticcerò”, “pasticcerei”, la “i” non ci vuole perché il suono palatale già c’è.

Diverso è il discorso di “pasticciere”, dove la “i” appartiene al suffisso “-iere”, un suffisso che generalmente indica il mestiere: “panettiere”, “banchiere”, “staffiere”, “alfiere”, “carrettiere”, “carpentiere” , “portiere”, ecc. E allora dovremo scrivere: “pasticciere”, “pasticciera”, “pasticcieri”, “pasticciere”.

Ma, che volete?, l’uso comanda. E anche i vocabolari – che devono fare, poverini? – Si adeguano. Qualche anno fa non riportavano la forma erronea “pasticcere”, ora (ne ho controllato piú di uno) scrivono: “Pasticcere, V. Pasticciere”. Magari fra qualche anno troveremo “Pasticciere, V. Pasticcere” e poi forse troveremo solo la forma “pasticcere”, tranquillamente sdoganata. Avrà vinto l’ignoranza, ma i linguisti sono pochi, gli ignoranti tanti.

Amerigo Iannacone